Spedizioni Scientifiche Malacologiche
Inventario Malacologico degli Atolli
della "Riserva Biosfera di Fakarava"
Arcipelago Tuamotu - Polinesia Francese - Oceano Pacifico

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Diario di Luca Tringali


 

LIBERO, LA POLINESIA FRANCESE ED IO

 

Partenza.

28 agosto 2009, ore cinque e trenta del mattino: parto. Il mio biglietto prevede un massimo di 20 kg (un errore dell’agenzia), per cui l’irremovibile signorina dell’Alitalia si rifiuta di imbarcare la borsa delle marmellate che avrebbero dovuto costituire la nostra colazione. Mi oppongo, ma senza risultati; anzi, con un risultato negativo che presto mostrerà i suoi effetti.

Mi imbarco. In orario. Si parte? In ritardo. Una voce annuncia che siamo in attesa di un passeggero. Poco credibile. Poi di due ritardatari. Poco credibile. Poi vaneggia di problemi burocratici. Poco credibile. Poi di un guasto al segnalatore di carburante: un tecnico dovrà constatare di persona il livello (tuffandosi? Non ce lo dicono). Credibile. Arriviamo appena in tempo per la coincidenza Los Angeles-Papeete.

Parigi-Los Angeles, volo piuttosto noioso. Dormo molto, penso ai problemi di comunicazione che avrò in Polinesia per raggiungere l’Italia; in qualche modo si farà. Prima di arrivare a Los Angeles inizio a scrivere questi deliri, obnubilato dal fuso, sul sacchetto d’emergenza ad uso dei deboli di stomaco. Ripartiamo in orario per Papeete, ore sedici ora locale.

 

Ancora ventotto

Senza mutande

L’arrivo a Papeete è stato meno noioso del resto del viaggio: il mio bagaglio non è arrivato. Il risultato del litigio a Fiumicino si è palesato: l’inflessibile megera dell’Alitalia, distratta dalle mie rimostranze, ha omesso di applicare l’etichetta “PRIORITY” riservata ai bagagli in transito rapido, con la conseguente separazione tra la mia valigia e me. Dovrò passare un mese in un atollo sperduto della Polinesia con solo quello che ho indosso?

Al servizio bagagli tentano di tranquillizzarmi: mi dicono che capita di frequente, che le valige le perdono a Charles de Gaulle, che in genere arrivano dopo due o tre giorni, che me le recapiteranno all’indirizzo polinesiano che avrò la bontà di comunicare, che adesso mi consegneranno una trousse d’emergenza e che se non ho ancora deciso dove passare la notte saranno lieti di fornirmi l’indirizzo di una pension a buon mercato. L’idea di attendere il volo di domani stazionando su una triste e affollata sedia dell’aeroporto non mi sorride, per cui accetto senza troppa convinzione la sistemazione propostami, mi faccio venire a prendere e mi ritrovo in una pensionaccia sporca, con i cessi in comune e i lavandini ripieni di formiche.

 

29 agosto

Papuné.

Ore 5 in aeroporto: il banco del check-in è ancora chiuso. Meglio, così potrò comprare qualcosa. Trovo solamente un cappellone e una maglietta: meglio che niente, il cappellone made in Thailand si rivelerà vitale. Mi guardo intorno per vedere come sono i polinesiani: mediamente brutti e grassi, molto grassi, donne e uomini. Pare che la vista dall’alto sugli atolli sia bellissima: ci credo ma non vedo che nuvole a perdita d’occhio dal decollo da Tahiti all’atterraggio a Fakarava. Ecco Libero che mi aspetta; non smette di sorridere nemmeno alla notizia delle marmellate rimaste a Roma e del bagaglio non arrivato. Che persona: combatte dal 2002 contro malattie gravi, ma senza perdersi d’animo e con una caparbietà invidiabile. Evidentemente meglio di trapianti, terapie e medicine è stato il trasferimento in Polinesia a studiare le sue amate conchiglie.

Lo incontro per la prima volta a febbraio 2009 tramite il nostro amico Claudio; per me è stato “amore a prima vista”; mi offre di accompagnarlo nell’avventura polinesiana, io accetto senza riserve ed eccoci insieme, in mezzo all’Oceano Pacifico, che ci rechiamo alla pension che ha prenotato per me. Stile polinesiano: cesso che è un cesso (in comune) e lavandini con formiche. La stanza, invece, è spartana ma pulita, solo tre pareti: la quarta è costituita da buchi: una griglia in legno dove in genere si arrampicano le piante. Esco, saluto Libero che dorme nel farè (casa) della Biosfera, torno indietro. Nella cucina – salle-à-manger leggo su una parete: “papuné: 1 pax (luca tringali)”. Chissà che vuol dire. Torno verso la camera in fondo al corridoio. Porta destra o sinistra? Destra. Infilo la chiave, apro, e sul letto c’è una donna in mutande che si spaventa. Mi scuso, poco imbarazzato e più divertito, e chiudo subito. Era la sinistra…

Pomeriggio: anche a Fakarava i polinesiani sono brutti e grassi. Prima immersione in cerca di conchiglie. Inizio a chiarire la mia posizione con Christoph, il proprietario del diving dove troneggia l’imperativo categorico “pas de pipi dans le combi”: sono autorizzato dalla Direction de l’Environnement a raccogliere molluschi vivi e morti per lo studio della malacofauna della Réserve de Biosphère UNESCO di Fakarava, ma Cristoph mi previene, Liberó gli ha detto tutto. Come prima plongé non c’è male: delfini, due mante e un gruppo di squali grigi proprio sulla testa. Porto a Libero le poche conchiglie raccolte e lui sorride: una specie nuova per Fakarava (alla fine dei tre giorni di permanenza saranno 5 specie nuove, come inizio può andare). Torno alla pension e Libero mi saluta con il suo “bene bene, sono contento”, pronunciato con noncuranza, quasi con banalità, come se volesse invece dire “vorrei un caffè”. Pension: esco sulla verandina della stanza, e in quella a fianco c’è la donna in mutande di poco prima (anche lei con i capelli corti): mi avvicino per scusarmi con più convinzione di prima. “C’est pas grave. Françoise” mi tende la mano e mi sorride, “colpa mia, ho lasciato la porta aperta”. Parliamo e sono veramente stupito: nonostante il mio elementare ed esiguo francese ci capiamo abbastanza bene, e scopro che già conosce Libero che lì è amato da tutti e che tutti chiamano Papuné, il “nonno che si prende cura di tutti”. Cena tutti insieme, Papuné, un po’ affaticato, tiene banco come sempre. Saluti, bonne nuit, vado in veranda. Vedo Françoise che accompagna con la bicicletta Libero. Torna dopo una mezzoretta, io sono seduto ancora fuori a riposare e a godermi il fresco. Non entra dalla porta ma dalla veranda. La mia. Si siede vicino e parlottiamo di immersioni, viaggi e stupidaggini varie.

 

I due giorni seguenti

Altra partenza

Il tempo corre nell’attesa che approdi la Mareva Nui che ci traghetterà a Niau. Arrivo previsto del mercantile: 31 sera con partenza il giorno dopo. I locali mi dicono però che a volte anticipa e a volte ritarda. Spero proprio che ritardi: sono ancora senza bagaglio e francamente ora  non mi va proprio di andare in un’isola con poco più di cento abitanti, dove tutto arriva via mare circa ogni quindici giorni, e affollata di zanzare e nonò (insettucoli che possono causare gravi allergie). Mentre a Fakarava mi diverto: tempo orrendo con pioggia e vento, ma immersioni nell’Oceano difficili ed emozionanti; la cucina polinesiana di Jacqueline (la padrona della pension) è sorprendentemente rude e morbida allo stesso tempo: pesci crudi con solo uno spruzzino di limone ma anche ricette elaborate e speziate al punto giusto. E poi la ricerca, le passeggiate a piedi e in bicicletta, e le chiacchierate con Papuné.

Mentre pioggia e vento hanno lavorato accanitamente e con successo al fine di minare la mia salute (raffreddore forse con febbre ma non la misuro così non lo so), inaspettata giunge la nuova del bagaglio ritrovato. Per uno riacquisito un altro s’invola: dopo l’ultima plongé ho dimenticato – ma allora sono io! – lo zaino delle macchine fotografiche nel diving. Poco male, lo prenderò domani, prima di navigare verso Niau. Si perché alle 19 del giorno 31 di agosto è arrivata la Mareva Nui, imprevedibilmente in orario svizzero.

 

Il primo di settembre

La Mareva Nui

È un cassone bluastro e rossastro, rumoroso e maleodorante che comunemente appellano bateau. Si sale, o meglio ci si arrampica, da una scaletta di ferro arrugginito abbarbicata sul fianco del mercantile, una mano alla volta e un piede per volta. I bagagli sono stati caricati con una gru. Ci intimano di salire ancora, e noi, ubbidienti, saliamo. La copra, la polpa del cocco essiccata dalla quale si ricava l’olio, è parte essenziale del carico, ma non meno importanti sono le provviste per gli atolli meno collegati (ad esempio Niau). La traversata della laguna di Fakarava scorre liscia, e riusciamo anche ad acquistare vettovaglie per le settimane future, soprattutto casse di acqua Royale prodotta e imbottigliata a Tahiti, e papier de toilette: la nave è anche un “negozio” galleggiante, ma non si possono acquistare piccole quantità di merce, solo casse e cartoni. Mi auguro di non aver necessità di tutti i 100 rotoli di carta igienica contenuti in un cartone. Chiedo e il capitano mi risponde: a causa del mare arriveremo in ritardo sulle due ore di traversata previste. A causa del mare: appena fuori la pass di Fakarava inizia la giostra. Dalla nostra postazione (in alto, quasi all’aperto, protetti da una ringhierina alta circa un metro e mezzo ci godiamo tutte le cinque ore di beccheggio e rollio, ovvero prua che si alza molto oltre la linea dell’orizzonte per poi tuffarsi fra le onde, e albero che si inclina prima a destra, ancora, di più, fin quasi a toccare l’acqua, e poi a sinistra ripetendo simmetricamente la prodezza. Hallo Capitain, non si potrebbe navigare dritti per un po’? Libero prova a sedersi, ma la posizione delle ”cuccette” è strategica: non un soffio di vento deve andare perduto. Torno dopo poco a vedere Papuné e lo trovo imbacuccato, intirizzito, malandato, congelato, arruffato, incazzato, sconcertato e tutti gli altri “ati” possibili; lo convinco a stare in piedi vicino alla ringhiera sul davanti, almeno lì siamo riparati dal vento. Che esperienza: i medici lo dovrebbero prescrivere a tutti almeno una volta. Dopo tutto ciò il resto è routine: non c’è porto, il  bateau si “ferma” al largo, saliamo su uno zatterone di metallo, ci calano in mare con una gru, lo zatterone spiaggia sull’isola e abbiamo appena il tempo di scendere che la zattera è già in rotta verso la nave per sbarcare la merce. Libero è sfasciato e si accascia sulla prima roccia che trova.

 

2-5 settembre 2009

Cognome e nome: Fatitiri Ririfatù

Il primo polinesiano magro che vedo (emblematico della situazione provviste a Niau – con l’accento sulla “i”), tra i quaranta e i cinquant’anni (per quello che si può capire dei polinesiani, che sembrano sempre più grandi di quello che sono in realtà) ci viene incontro, e Libero fa le presentazioni. Ririfatù, il nostro uomo a Niau, è conosciuto in tutti gli atolli: è il Vicepresidente per Niau (c’è un vicepresidente per ogni atollo) dell’Associazione Riserva Biosfera. Carichiamo tutto su una cosa che diversi decenni or sono doveva essere un pick-up, e che adesso parte solo in discesa o a spinta; mi accomodo sui bagagli insieme ad una ragazzotta imbarazzata, e ci muoviamo alla velocità massima consentita dall’automezzo (nel senso che è rimasta a malapena la metà dell’auto, tante sono le “prese d’aria” nella carrozzeria) di circa venti chilometri orari. Sistemazione nel farè della Biosfera dignitosa, anzi inaspettatamente comoda, a pochi metri dall’Oceano, e Ririfatù, che si dimostrerà sempre più disponibile, premuroso e indispensabile, ci aiuta a scaricare le tonnellate di materiale di Libero e le casse di provviste acquistate sul bateau. Cominciamo a sistemare il bagaglio, ma per prima cosa Libero mi chiede di aiutarlo a trovare le sue medicine. In venti minuti veniamo a capo della ricerca: …antax, …ipax, …ixin, …oxin, …oidol, …algan, …ina, poi Libero estrae tre pacchetti di preservativi: “questi speriamo che servano”; poi una sfilza di antidolorifici dai più blandi ai più potenti: “questi speriamo di no”. Ririfatù ci porta la cena cucinata da sua moglie madame Fatitiri. Nei giorni seguenti ci mettiamo all’opera e cominciamo le ricerche; Ririfatù ci fissa degli incontri col Sindaco e con la Direttrice della scuola per organizzare un paio di proiezioni per la popolazione e per i bambini; Ririfatù ci mette in contatto con delle persone che ci dovrebbero accompagnare durante le ricerche sull’ecologia del pupuniau, una conchiglietta di terra utilizzata nell’artigianato per fare collane, endemica delle Tuamotu e probabilmente (una delle cose che dovremmo scoprire) minacciata per via della raccolta eccessiva; Ririfatù ci accompagna nelle ricerche in mare diurne (apnee, a  volte fruttuose, a volte vergognose) e notturne (passeggiate sul récif); Ririfatù ogni sera ci impedisce di morire di inedia. Unica contrarietà: prima pioggia e vento (come a Fakarava), poi solo vento e mare mosso.

La caratteristica che rende unico Niau (oltre alla linea invidiabile degli abitanti rispetto al resto della Polinesia) è la laguna: è un atollo senza pass, per cui non c’è collegamento apparente con l’Oceano. La conseguenza è un’acqua lagunare iposalata, quasi dolce. Mi aspettavo qualcosa del genere, ma non a questo livello: la laguna di Niau è una bagnarola verdastra e caldiccia, con un prevalente olezzo di alghe putrefatte e solforose. In compenso le apnee nell’Oceano ripagano di tanto fetore: con l’accortezza di andare dalla parte opposta a quella del vento, si può vedere in acqua uno spettacolo a dir poco fastoso, con pesci, coralli, molluschi e squali. Ririfatù dice “requins? Pas dangereux”: gli credo e tiro dritto.

 

Domenica 6 settembre

I Sanito.

Deluso dalla mancata accoglienza riservata ai nuovi arrivati (così mi aveva promesso Libero), il pomeriggio di domenica sono stato accontentato. Di mattina mi dirigo da solo (Libero ha un dolore insopportabile dietro la scapola destra) verso la chiesa Sanito, una comunità di cristiani simili ai Mormoni, per riprendere qualche immagine. Vengo immediatamente bloccato da una signora agée che mi sottopone ad un cortese e serrato interrogatorio: chi sono, cosa sono, da dove vengo, dove vado, che voglio, che faccio, che facevo, che farò, si che posso scattare fotografie ma prima mi deve presentare, a chi? Alla presidentessa della comunità madame Vattelappesca. E un’altra cascata di parole che non ricordo. Per fortuna madame Vattelappesca non parla francese per cui me la cavo con due baci sulle guanciotte paffute. Le due femmine mi trasportano in una grande sala dove leggono i Salmi (attività secondaria) cantano e suonano (attività principale), e la signora agée mi introduce nella comunità ripetendo a memoria non solo tutte le domande, ma anche tutte le risposte di poco prima. Prima di congedarsi mi intima di presentarmi alle sedici per la cerimonia di benvenuto. À vos ordres mon Capitain! Rimango tutta la mattina con i Sanito, affascinato dalla professionalità con la quale suonano e cantano intonatissimi tutti insieme, sedici persone con  chitarre e ukulele, un paio di tamburelli e un “contrabbasso” a una corda (una sagola nautica) con tre suoni, fissata ad un’estremità ad un tubo di plastica e che scompare all’interno di un secchio di plastica nero per la spazzatura, in posizione rovesciata. Torno per vedere se Libero ha bisogno di qualcosa: ha ancora dei dolori atroci ma decide di aspettare il pranzo per l’antidolorifico. Passano in sequenza prima la moglie di Ririfatù, poi Ririfatù in persona per ricordarmi l’appuntamento delle sedici. Non hanno alcuna fiducia in me. Puntuale mi presento, ma la cerimonia di benvenuto ancora non inizia; mi accomodo nello stesso salone della mattina, ancora canti e musica, ma con una variante: cinque virago (la presidentessa, la agée e altre tre) siedono intorno ad un tavolo, contano le offerte e propongono quesiti religiosi ai convenuti. Al primo che risponde correttamente viene data in premio una banana. Ecco il momento tanto agognato: mi chiamano (avevo scritto il mio nome su un quadernetto), mi regalano cinque collane di conchiglie fra cui due costituite dai famosi pupuniau, mi applaudono e mi chiedono di parlare: ringrazio un po’ tutti e farfuglio qualcosa su ospitalità e casa, strette di mano e baci su guance grassocce, e giù altri canti. Il tutto, con lunghi discorsi in paumotu, si protrae fino alle sette. Poi a casa, a cena, a dormire.

 

Dal lunedì al giovedì

Vita rumorosa a Niau.

Dopo una settimana penso di aver capito che l’attività principale degli isolani sia quella di fare il meno possibile, e di farlo con molta calma, ma ridendo spesso, con risate brevi e sonore che a volte  assomigliano al verso dei tacchini. I bambini vanno a scuola, dalle otto di mattina alle quattro del pomeriggio, ma con almeno tre lunghe pause di ricreazione, durante le quali escono, giocano e fanno un chiasso formidabile e sono tenuti a bada da due maestre. Gli adulti vanno a pesca in mare, se l’oceano lo permette, oppure pescano nella bagnarola fetida della laguna, alcuni lavorano la copra, altri – i più sfortunati – sudano tra i cocotiers carbonizzando cocchi vecchi e foglie cadute allo scopo di eliminare il ciarpame. Qui per me funziona pressappoco in questa maniera: sveglia tra le cinque e le cinque e mezza con i galli che strillano, colazione con Libero, sistemazione del materiale raccolto il giorno/la sera prima, arrivo di Ririfatù e programmazione della giornata (dove ci deve scarrozzare), ricerca in mare/terra, pranzo, riposo che è forse il momento più importante della giornata, sistemazione fotografie, cena verso le sei quando ormai è buio pesto, ricerca notturna se la marea e il vento lo consentono, ventitre-mezzanotte estensione di questo elaborato, poi sonno pesante e senza sogni. Dopo pranzo mi siedo nella veranda, leggo Il giovane Holden, osservo le maestre che controllano i bambini (badano soprattutto a che non si siedano all’ombra delle palme: un cocco in caduta libera può facilmente fracassare una capoccia), li ascolto schiamazzare nel giardino della scuola proprio a fianco del  farè, o li osservo mentre sguazzano nella piccola insenatura chiamata “porto”: insomma me la godo parecchio. Martedì pomeriggio, evento che mobilita la popolazione: arrivo della nave Maristella. Ci sono tutti: chi curiosa, chi accompagna i curiosi, chi aspetta delle merci ordinate almeno quindici giorni prima, chi come noi attende di conoscere il carico per fare degli acquisti. Bambini che giocano urlando, ragazze che ridono, uomini che parlano, voitures scassate che arrivano e si incastrano tra loro per ottenere la posizione migliore per caricare la merce tanto attesa; tutti fanno qualcosa e anche noi siamo contagiati da tanta eccitazione. Libero dalla veranda filma qualsiasi cosa si muova e parli, io mi aggiro come un folle in attesa di chissà che cosa tra la calca che aspetta la merce. Come per il nostro arrivo (avvenuto dall’altra parte dell’atollo a causa del mare agitato) il bateau incrocia al largo mentre arrivano nel “porto” due zatteroni: prima c’è lo scarico del materiale ordinato, poi il carico della copra, poi la vendita al dettaglio. Avete questo? Non. Avete quello? Non. Avete quell’altro? Non. Pare che tutti trovino qualcosa da acquistare tranne me. Oranges? Oui. Finalmente, due chili! Tomates? Bien sur. Due chili. Ma prima devo andare a pagare al Capitain che nel frattempo è sbarcato e sta fronteggiando uno stuolo di questuanti. Mi unisco alla fila e attendo. Pago, torno alla zattera e les tomates sono finiti, li ha presi tutti quella maman lì. Vuoi pommes de terre? No. Carottes? No. Choux? Ne abbiamo comprati dieci sulla Mareva Nui. Raisins de Thailande? Per carità! Al posto dei pomodori prendo mele e altre arance. Pazienza, niente sugo. Poi d’incanto tutti svaniscono, le zattere svaniscono, la Maristella svanisce, l’evento che ha elettrizzato tutti gli abitanti svanisce. Rimane solamente l’incessante fracasso dell’Oceano che tenta ogni secondo, ogni giorno, ogni mese, ogni anno, di demolire il récif.

Giovedì all’una del pomeriggio giunge Ririfatù e chiede se ho voglia di partecipare alla pesca nella bagnarola verde chiamata lagon. Bien sur, mi preparo e salgo sul retro del pick-up. Il metodo di pesca è semplice: due persone entrano in acqua fino alla pancia, una sostiene il grosso della rete e l’altra la srotola allontanandosi; quando è tutta srotolata i due iniziano a riavvicinarsi unendo i lembi fino a formare un cerchio, mentre una terza persona (nella fattispecie l’onnipresente ragazzo del magazin quasi sempre chiuso) sbatte l’acqua con i piedi, con le mani o tirando noci di cocco per far entrare i Chanos chanos nel cerchio. Quando ormai la trappola è formata si entra tutti nella circonferenza e si inizia prendere i pesci intrappolati nelle maglie, che sono abbastanza larghe da lasciar scappare i piccoli. Poi si ricomincia un poco più avanti, e così per tre o quattro volte. Alla fine tutti a riva ad eviscerare i malcapitati pesci per la gioia di gabbiani, sule e fregate che, appunto, essendo le più grandi di tutte fregano dal becco degli altri il prezioso cibo inatteso. Questo è quanto.

 

Venerdì e sabato

Donne e dirigibile.

Sveglia come al solito presto, ma oggi c’è una novità: incontro con le maestre della scuola per organizzare la proiezione. Ci vediamo alle otto e trenta e noi siamo puntualissimi. Anche loro. Assistono con fare critico e un poco arcigno alla proiezione, prendono appunti. Tanti appunti. Certo il mio francese non è proprio perfetto e le avevo pregate di segnalarmi gli errori, ma non credevo di averne fatti così tanti. Sollievo: solo un errorino, e gli appunti erano per rivolgerci delle domande. La proiezione è piaciuta, speriamo piaccia anche a les enfants.

Ririfatù mi raggiunge: “andiamo a plonger?” Dopo la ricerca in apnea durata tre ore perché l’automezzo aveva finito l’acqua per cui Ririfatù prima è venuto a cercarmi per dirmi che dovevo aspettare ancora, poi è andato a cercare l’acqua, poi è tornato alla voiture per abbeverarla, poi mi è venuto a prendere e sono diventate le tredici e trenta, poi siamo tornati alle quattordici e quindici. Finalmente abbiamo ricevuto una visita: Elodie, una ragazza della Martinica sui trenta-trentacinque anni, che vive a Moorea, magra, bassina, con gli occhi grandi, il naso dritto e i capelli lunghi e biondi, biologa ricercatrice, a Niau con un’amica per studiare, per conto della Direction de l’Environnement, le crabe de cocotier. L’amica è più alta, più formosa, con capelli lunghi e ricci, di carnagione scura, un poco strabica, e un pupo in carrozzina al seguito.

Il sabato le nuove arrivate scompaiono nella foresta in bicicletta ed io me ne vado a cercar conchiglie in apnea proprio davanti al farè. Mi immergo e mi rendo subito conto della conformazione del fondale: per circa dieci metri dall’orlo della barriera il fondo degrada più o meno dolcemente fino a dieci-quindici metri di profondità; poi una parete perfettamente verticale si perde nel blu quasi nero: qui inizia l’Oceano vero. Vedere tutto nero, come fosse notte mi mette paura. Torno in fretta sul più rassicurante fondale di cinque metri. Inizio a nuotare contro corrente seguendo il profilo della costa, così il ritorno, spinto dalla corrente, sarà più semplice (inutile pensare di guadagnare la riva altro che dalla piccola insenatura: troppe onde). Fatico. Raccolgo qualcosa di carino. Nuoto in apnea il più possibile per sfuggire alla corrente e alle onde. Trascorre un’ora. Basta, la giornata me la sono guadagnata. Torno indietro. Vedo da lontano qualche requins: pas dangereux sentenziava Ririfatù, ma lì, a dieci metri da me ci saranno almeno cento o duecento metri di fondale, può arrivare di tutto. E il tutto arriva. Sono giù in mezzo ai coralli per cercare le ultime conchiglie, quando mi accorgo che dietro di me sta succedendo qualcosa. Non sento rumori, ma percepisco, so di non essere solo. Mi aggrappo ad un corallo, mi giro e vedo un dirigibile nero e bianco in arrivo appena oltre la cresta della barriera, a una decina di metri di distanza. Rimango abbarbicato al corallo, dimentico di respirare, sarà uno squalo balena. No, senza squalo. È troppo grande. È una balena. Mi raggiunge, la vedo volare al mio fianco, vedo una pinna laterale lunghissima, mi supera, è sparita. Pochi secondi, riemergo, sono stravolto, incredulo, non me l’aspettavo, enorme, veloce, silenziosa, vicinissima. Torno all’insenatura per uscire dall’acqua il più presto possibile, ho difficoltà a gestire l’emozione. E poi mi assale un pensiero atroce: se una balena ha navigato a pochissimi metri da me, da quel blu può venir fuori qualsiasi mostro (altro che pas dangereux). Guadagno l’insenatura, caracollo sulle alghe che ricoprono lo scivolo in cemento per l’unico motoscafo di Niau, slitto varie volte provocando la fragorosa ilarità degli astanti, donne, uomini, bambini (ma non avete altro da fare che stare impalati a guardare come sono impacciato?), riesco ad uscire, non mi crederà nessuno. Invece Libero mi crede: “bene bene, sono contento” come al solito, ma stavolta sgrana gli occhi e spalanca la bocca. E a cena Ririfatù conferma: le balene passano spesso lì à coté e lui ne ha vista una (la stessa?) quella mattina presto.

 

Domenica tredici

Ancora Sanito

Il solito fino al pomeriggio. Oggi l’insenatura è letteralmente ripiena di bambini e ragazzi urlanti. Veramente i ragazzi sono pochi perché la popolazione di Niau è costituita principalmente da bimbi, adulti e anziani: qui c’è solamente una scuola con due classi, una per i più piccoli, una per i meno piccoli, per cui i ragazzi, se possono e se vogliono studiare, si devono trasferire da qualche parente a Tahiti o a Rangiroa. Ma improvvisamente al solito chiasso composto e alle risate da tacchino di un paio di ragazze si sostituiscono delle urla disordinate ed inaspettate: tutti in fila ad osservare il mare. C’è una balena. E che sarà mai, io ci ho nuotato fianco a fianco… E invece mi sorprendo a correre sul bordo dell’oceano per cercare di rubare un ultimo spruzzo o magari una piroetta fuori dall’acqua. Macché, non si concede. Deluso mi preparo per tornare alla chiesa Sanito: loro sono simpaticissimi, le musiche e i canti mi piacciono e più tardi ci sarà la cerimonia di benvenuto per le tre nuove arrivate. Eccole, la bionda, la mora e l’infante, vestite a festa sono sorridenti e deliziose. Scatto fotografie (decisamente a Niau le persone sono molto meno in carne che a Papeete e a Fakarava), giro un paio di filmati, loro mi guardano e sorridono, sembrano contente che qualcuno le riprenda. In effetti lo sono, la mora (ancora non si è presentata), appena finita la cerimonia, si precipita a chiedermi di vedere le foto. Hai un ordinateur? Mais oui. allora te le scarico quando vuoi.

Dopo cena giunge Ririfatù, e sia lui che Libero hanno voglia di chiacchierare. Si parla di tanti argomenti: della pesca al thasard, una sorta di sgombro gigante buonissimo, del vice-sindaco di Aratika che l’anno scorso, per i trasporti sulla sua barca, ha estorto a Libero cinque fusti da duecento litri ciascuno di carburante, quando ne sarebbero bastati due, dell’oparà o le caviar de Niau, del problema della poubelle, e cioè dove mettere la spazzatura, degli innesti di agrumi. Ririfatù è molto interessato a come innestare alberi fruttiferi sugli aranci e limoni selvatici che qui crescono in abbondanza, e Libero promette di mostrargli come fare. Poi mi gela: domani sera, se il mare è calmo, andiamo ensemble, tu à chercher les pupù (parola paumotu per conchiglia), moi à ramasser les langoustes, e lo dice con uno sguardo malizioso, come di sfida. Cazzo, un’immersione notturna nell’Oceano. La strizza aumenta, ma va bene ugualmente, e per qualche minuto non riesco né a parlare, né ad alzarmi dalla sedia: devo digerire la proposta. Verso le ventuno mi vado a stendere in riva al mare. Tante stelle così luminose non le avevo mai viste, nemmeno quando ho dormito all’aperto nel deserto. Poi il suono della marea che monta. Nessuno mi potrà mai privare di tutto questo.

 

Quattordici settembre

Lise

Finalmente si presenta: moi je suis Lise. Ci dobbiamo avventurare nella foresta alla ricerca dei pupuniau, ma prima Ririfatù si ferma alla casupola dove abitano Elodie e la sua amica, che desidera seguirci e scattare fotografie. Passiamo due ore nella boscaglia e poi Libero, Ririfatù e Lise tornano con la voiture, mentre io me ne torno a piedi con la scusa di fare un altro po’ di ricerca, ma in realtà per starmene da solo. Arrivo sotto il sole delle tredici e non vedo l’ora di riposare al fresco in veranda, anche perché in serata mi attende la famigerata apnea, ma un’altra ferale novella si abbatte sulla mia stanchezza: sta per giungere, dopo quattordici giorni – puntuale come la morte –, la Mareva Nui, il bateau con il quale abbiamo navigato da Fakarava. Niente riposo, necessita essere pronti per comprare frutta e verdura prima che finisca nelle mani (e nelle fauci) altrui. C’è anche Lise che scatta fotografie e mi chiede se è possibile acheter qualche legumes e della fruit. Oui, c’est possibile, ma non illuderti perché non saranno grandes choses, e comunque il faut attendre le Capitain. E così facciamo, chiacchierando e sorridendo imbarazzati. Lise è contrariata, non ci sono legumes per cucinare passati per il pupo, solo choux e aîl, e quanto alla frutta sono rimaste pommes et poires. Le dico che bisogna attendere che i marinai della zattera ricevano gli ordini, che tornino alla nave, che preparino la merce, che la carichino sulla zattera e che infine ce la consegnino. Una mezzora buona durante la quale ci salviamo dal sole implacabile sedendoci all’ombra della veranda del farè. Altra conversazione, questa volta meno imbarazzata. Chi sei, cosa fai, dove vivi eccetera eccetera, come avrebbe sentenziato il giovane Holden Caulfield. È parigina (inconfondibile) e parla un italiano stentato perché ha lavorato un anno in una galleria d’arte di San Gimignano. Brillante, sempre sorridente, ride spesso di una risata aperta, simpatica. Arriva la zattera, prendiamo pommes et poires, baci, a dopo. Ma quale dopo, devo andare a fare il bagno con Ririfatù… che arriva con un’altra sorpresa: per cena c’è pesce di laguna crudo (e fin qui tutto bene) con l’oparà: due prove nelle stessa giornata sono decisamente troppe. Quello che chiamano il caviale di Niau è semplicemente l’alimento del Chanos chanos (il pesce della laguna) che si nutre di alghe, non digerito e contenuto in una sacca dell’animale. Descritto così fa vomitare, e anche l’odore non è proprio invitante, ma mescolato con il latte di cocco assume un sapore molto particolare e gradevolissimo. Prima prova superata, ma ora mi attende la seconda. Ririfatù mi provoca: forse c’è beaucoup de vent, vogliamo rimandare la plongé? No, andiamo. La mer non è proprio calmissima, se voglio proviamo une autre fois. No, andiamo. Ci trasciniamo dietro la piroga per depositarvi i pesci e le aragoste che Ririfatù dovrà procurare, così il sangue non attirerà squali e altri visitatori indesiderati. Alla fine, oltre ad un bernoccolo procuratomi con una capocciata contro il fondo della piroga durante una risalita dall’apnea, strappo una piccola soddisfazione: il mio retino è dignitosamente pieno di pupù, mentre Ririfatù, delusissimo, ha pescato solamente un pesce striminzito e nessuna aragosta.

E domani cosa succederà?

 

Domani e dopodomani

Lezione di innesto e di sollevamento sassi

Ormai è quasi un’abitudine: io a ramasser les coquillages e Ririfatù a procurare pesci per pranzo e cena. Ovvero, io gioco e lui lavora, anche se lui prende molto sul serio il mio gioco. Come vicepresidente dell’Associazione Riserva Biosfera sembra apprezzare il fatto che ci diamo parecchio da fare con le ricerche. Anche stavolta ci trasciniamo la piroga per il pesce arpionato, ci facciamo trasportare dalla corrente e perlustriamo almeno un chilometro e mezzo di costa e fondale a nuoto. Poi lui torna in voiture ed io a piedi. Mi perdo immerso nelle palme da cocco, albero spettacolare almeno qui a Niau dove forma delle foreste estese e fitte. L’albero singolo non è granché appariscente, ma una foresta con centinaia di piante è uno spettacolo esaltante che lascia senza fiato: colori di ogni gradazione che passano dal marrone scuro, all’arancione, al giallo bruciato, al giallo vivo, al verde chiaro e più intenso; con il sole che filtra attraverso le fessure delle foglie alcuni cocotiers sono lucenti, altri sembrano quasi trasparenti, con riflessi di luce che saltano da una foglia all’altra; e poi al vento (è ricominciato il vento del Sud) le foglie delle piante giovani e più basse si muovono tutte all’unisono in una direzione, mentre quelle degli alberi più anziani, molto alti (anche quindici – venti metri) e sottili, appaiono più disordinate, spettinate. Insomma è un albero allegro, di un’allegria contagiosa. Ed il frutto è delizioso e fondamentale: si beve, si mangia come frutta in lamelle sottili e morbide quando è ancora un poco acerbo, si mangia come dolce tagliato in pezzi spugnosi quando ha iniziato a germogliare, il latte (quando il frutto è maturo) si adopera per condire e cucinare pesce e carne, l’olio estratto dalla copra (il frutto seccato) si usa per friggere, e sicuramente dimentico qualcosa. Si, dimenticavo le cœur du palmier: quando un albero è ormai troppo vecchio per fruttificare in modo produttivo, se ne taglia circa un metro a partire dall’apice e si scava l’interno, il cuore appunto, che si mangia crudo in insalata; è ottimo come tutto il resto. Ritrovo la strada (difficile perdersi in un atollo di trenta chilometri di circonferenza) e vedo Libero che mi accoglie con il suo ormai familiare “bene bene, sono contento”; ma quando gli dico come sollevo i sassi per cercare le conchiglie che si nascondono durante il giorno, lui, preciso come sempre, mi fa notare che non eseguo l’operazione in maniera corretta: prima giù in apnea, individuare il sasso o il corallo morto da sollevare e sollevarlo; poi su a respirare in attesa che la sabbia che inevitabilmente viene sollevata si depositi di nuovo; quindi giù di nuovo a vedere quel che c’è. E fin qui tutto corretto, ma secondo lui dovrei tornare giù una terza volta, rigirare il sasso precedentemente rimosso, e cercare nel caso fosse caduto qualcosa dalla superficie del medesimo. Lo guardo e non capisco se mi stia prendendo per il culo o se dica sul serio.

Il sedici, subito dopo colazione, vado a trovare le ragazze francesi per invitarle alla proiezione delle dieci e trenta alla scuola. Guardiamo video e foto della cerimonia di benvenuto con i Sanito, e con Lise scherziamo e ridiamo.

Proiezione a scuola: grande successo di critica e di pubblico. Solo Elodie prima di andar via mi fa notare un particolare che secondo lei è un errore. Si sbaglia lei, ma non replico, invece la ringrazio e la saluto. Le maestre e i bambini, invece, sono estasiati e non smettono di fare domande, in un francese approssimativo (i bambini, non le maestre), cui noi rispondiamo con un altro francese altrettanto personale; hanno anche raccolto tonnellate di conchiglie, frammenti e cocci spiaggiati dei quali vogliono sapere tutto. Noi scriviamo i nomi scientifici delle conchiglie così loro potranno organizzare un piccolo museo scolastico.

Nel pomeriggio Ririfatù si presenta per la lezione di innesto promessa. Ci rechiamo nel giardino di casa, tra manghi con frutti piccoli e ancora non maturi, e alberi del pane, dove Libero dà prova della sua abilità di “maestro innestatore”. È uno spettacolo guardarlo, con quelle dita anziane, taglia, rifila, innesta, perfeziona, scava i rametti da innestare come un violinista di professione suonerebbe una sarabanda di Bach. Siamo tutti incantati, io, Ririfatù, Jean-Baptiste che ha fornito la motosega per pulire bene la pianta di limone selvatico, e un paio di ragazzini che si domandano che cavolo stia combinando quel vegliardo dalla barba bianca con dei legnetti e del nastro isolante nero in mano. Il secondo innesto lo tenta Ririfatù sotto la direzione del “maestro”. Grandi risate e appuntamento all’anno prossimo per vedere quali dei due innesti avrà preso. Subito dopo visita al magazin stranamente aperto: scaffali semivuoti con biscotti, due sacchi di riso, carta igienica, varechina, aceto, acqua, latte in polvere, una scatola di nescafè, pacchetti di bon bon, scatolame (carne USA, cassoulet neozelandese, sardine marocchine, piselli cileni e fagiolini australiani). E basta.

In serata ricerca sul récif. Ma questo, dall’altra parte dell’isola, è un récif speciale, diverso dagli altri. Per Ririfatù qui l’Oceano respira. Ed è vero: non c’è una piattaforma di barriera più o meno uniforme, ma degli strati di coralli vivi, morti e fossili che si assottigliano fino a spezzarsi sotto il peso di una persona, intersecati da crepacci che si inabissano nell’acqua anche per parecchi metri; e tutta la superficie della barriera è come sospesa sulle onde che penetrano da innumerevoli buchi e fessure, producendo un suono caratteristico, tumultuoso ed inquietante, molto simile ad un respiro profondo e amplificato migliaia di volte. Un luogo fatato e pericoloso. Torniamo al farè, mangiamo, io esco per una passeggiata.

 

Giovedì diciassette settembre duemilanove

Magali

Oggi Tupanà (il villaggio dove abitiamo) è in subbuglio: grandi preparativi per l’arrivo nel pomeriggio dell’Amministratore Generale delle Tuamotu e delle Gambier (una sorta di prefetto) e del Sindaco di Fakarava e di tutti gli atolli della Résèrve Biosphere (Niau, Aratika, Toau, Kauehi, Raraka, Taiaro). Naturalmente accompagnati da una teoria di inutili e obesi funzionari.

Ma prima, in mattinata, riceviamo la visita di Elodie: vorrebbe informazioni su alcuni molluschi protetti, e noi collaboriamo di buon grado. Anche stavolta non perde occasione per dimostrare quanto sia competitiva, quasi fossimo in gara gli uni contro l’altra, e per assestare qualche acido commento. Né Libero né io replichiamo. Subito dopo pranzo, però, la vediamo tornare quasi in preda al panico. Une question: mi potete prestare l’ordinateur? Deve proiettare una presentazione alla scuola e il suo portatile non funziona con il videoproiettore delle maestre. Io so qual è il problema, lo abbiamo avuto anche noi il giorno prima: l’elettronica ha delle precedenze di collegamento da rispettare. Abbozza un timido sorriso quando le metto a disposizione il mio ordinateur. Andiamo tutti alla scuola e al termine di un’ottima proiezione solo un merçi senza nemmeno guardare, mentre si dirige verso la direttrice.uQQQQqqqqqw

Arrivo nella burrasca (ancora pioggia e maraamù, il famigerato vento del Sud) dei due motoscafi con la delegazione governativa. Libero dorme ed io lavoro all’ordinateur nel farè quando entra all’improvviso una ragazza che mi chiede dov’è la salle de bains. Indovina la porta senza aspettare indicazioni e ci si infila senza altre cerimonie. Molto bella, con un sorriso strepitoso, nera di occhi e di capelli, ed occhiali con una buffa e pesante montatura anch’essa nera. Esce dal bagno: “Je souis Magali”, come se la stessi aspettando. Rimango impalato come un fesso per qualche secondo, poi vengo contagiato dalla sua vitalità e ci mettiamo seduti in veranda a parlare come se ci conoscessimo da anni. Anche lei collabora con la Direction della Riserva, studia le risorse marine, soprattutto i pesci, è francese con padre calabrese di San Lorenzo (Reggio), parla poco italiano con un misto di spagnolo e portoghese, risiede e lavora a Tahiti, è arrivata con la delegazione governativa, e cerca Ririfatù. Che arriva, e chiacchieriamo tutti e tre. Poi ci raggiunge Libero e chiacchieriamo e ridiamo come amici d’infanzia. Purtroppo riparte domani mattina con l’aereo. Trascorriamo due ore allegre e poi Magali sparisce di colpo, così come era apparsa. La rivedo la sera all’incontro della popolazione con la delegazione alla mairie. Incontro burrascoso: molti abitanti di Niau, soprattutto gli anziani, sembrano contrari alla Riserva; si alzano per prendere la parola in parecchi, e interminabilmente protestano in paumotu stretto. Non capisco niente, ma mi traduce qualcosa Tiaitau la maestrina: loro hanno sempre pescato in un certo posto, e se ora c’è il divieto di pesca loro pescano lo stesso, tanto non c’è controllo; hanno sempre mangiato tortues per avere carne fresca, e se adesso è vietato pazienza, loro le mangeranno lo stesso, tanto nessuno controlla. E così via anche per i pupuniau e per il granchio del cocco. Riunione fiume: dalle diciannove e trenta alle undici, tra proteste decise, risposte spesso convincenti, lunghissimi monologhi (ho capito che ai polinesiani piace parlare a lungo), tante risate e qualche applauso. Mi alzo per scappare, saluto con la mano Magali che mi fa cenno di aspettare. Eseguo. Dopo pochi minuti si alza e mi raggiunge fuori, mi da il suo biglietto da visita: “quando vieni a Tahiti chiamami”. Mi bacia. Ciaó.

 

Venerdì diciotto

I pesci del récif non si possono mangiare.

Oggi ricerca molto fruttuosa con ottanta specie diverse trovate in tre ore, e almeno venti nuove per Niau. Il solito “bene bene, sono contento” ma capisco che Libero è contento davvero. Magali è partita alle otto (di nuovo baci e abbracci), Ririfatù è scomparso e il venerdì la scuola chiude alle dodici e trenta, per cui non c’è il solito schiamazzo. Noi siamo svogliati e ci sediamo in veranda a parlottare. E poi giunge Ririrfatù, portatore di un’ambasciata: Elodie vorrebbe plonger avec moi se non ho nulla in contrario. Io non ho nulla in contrario, ma che strana ragazza: perché mandare Ririfatù a sondare il terreno? Non poteva chiederlo lei direttamente?

Con il suo arrivo si parla di cibo, di pesca e di pesci. Pesca al bonito e al thasard in mare aperto con la lenza e senza esca, pesci che si mangiano preferibilmente crudi con limone e latte di cocco, accompagnati da fette di urù (il frutto dell’albero del pane) bollito; del pesce della laguna, pescato con la rete e mangiato crudo con l’oparà e il latte di cocco; dell’operù, grossa sarda da friggere; del rouget, del pesce pappagallo e del pesce napoleone, da arpionare sul récif in apnea, e da mangiare arrostiti, e serviti sempre con l’urù e con degli gnocchi di farina cotti nell’immancabile latte di cocco. Una cucina sana e saporita, semplice, diversa e familiare allo stesso tempo. Ed è il momento della domanda: perché con tanti pesci che ci sono prendi solo questi e pochi altri? Ti ho visto ignorare delle cernie enormi e molti altri pesci dall’aspetto alquanto appetitoso. La risposta è raggelante: “i pesci del récif non si possono mangiare” o meglio, se ne possono mangiare solo poche specie. E le altre? E le altre hanno la ciguatera, sono dangereux, empoisonneaux. Insomma esiste questo esserino che vive nelle alghe, che vengono mangiate da alcuni pesci erbivori, che assorbono nelle loro carni quest’affare pericolosissimo; gli erbivori vengono mangiati da alcuni predatori piccoli che a loro volta inglobano il batterio/protozoo/non so, e a loro volta vengono predati dai carnivori più grandi come i carangidi che di conseguenza hanno la loro carne avvelenata. Sento di non avere nessun controllo sulla mia vita, mi devo affidare ciecamente, completamente a Ririfatù.

 

Sabato, domenica e lunedì

Elodie è nervosa

È nervosa perché alla fine dell’anno non è certa che la Direzione dell’Ambiente le rinnovi la convenzione per studiare i coralli delle Tuamotu, e quindi rimarrebbe senza lavoro; ed è nervosa perché la pompa dell’acqua del farè che ha affittato è cassée: niente acqua in casa, e così la sua amica Lise è partita prima del previsto con il pupo. Ed è nervosa anche perché studiare il granchio del cocco non è affare di tutto riposo: partenza il pomeriggio alle quattordici, tragitto nella foresta da aprire a colpi di machete, percorso accidentato e pericoloso nel feó (vaste estensioni di terreno disseminate di buche e grotte nascoste dalla vegetazione, e costituite da affioramenti di blocchi di corallo fossile, più duri e più taglienti della roccia più dura e più tagliente, appuntiti ed erosi dal passare dei secoli), posa delle esche (noci di cocco tagliate), attesa nella foresta, in compagnia di zanzare e nonò, del calare delle tenebre (intorno alle diciotto), controllo delle esche e se c’è qualche kaveù (granchio del cocco) rilevamento di dimensioni, sesso, classe di età, con il fondato rischio di vedersi (e sentirsi) tranciare un dito dalle chele potentissime che le bestiole in questione utilizzano per spaccare le noci di cocco. Poi ritorno al villaggio verso le ventuno, sonno, sveglia con i galli alle cinque e trenta, inserimento dei dati nell’ordinateur, pranzo a mezzogiorno e poi si ricomincia. È decisamente meglio cercar conchiglie a mare, e anche Elodie ne conviene: sabato viene ad immergersi insieme a Ririfatù e me.

Ci invita a mangiare qualcosa da lei domenica, noi accettiamo e andiamo; poi Libero, dopo pranzo, torna al farè a riposare ed io rimango un poco ad aiutarla. La mia ultima domenica pomeriggio a Niau la passo di nuovo con i Sanito, e questa volta convinco Libero ad accompagnarmi: sono contenti di rivedermi e ci accolgono con grandi sorrisi, poi di nuovo tanta musica travolgente e tante persone felici e allegre. All’improvviso la vegliarda delle due domeniche precedenti richiama la nostra attenzione: musique pour vous deux. Suonano per noi, che persone deliziose. I saluti finali sono più difficili del previsto, i musicisti canterini mi piacevano parecchio.

Il lunedì ventuno è stato il giorno più noioso da quando sono arrivato in Polinesia. Ho passato tutta la mattina e buona parte del pomeriggio a fotografare le decine di conchiglie raccolte da Libero lo scorso dicembre nell’atollo di Toau: devono essere consegnate alla Direction de l’Environnement insieme alla relazione finale. Che palle. La serata si anima un poco con l’arrivo di un Ririfatù raggiante e ancora gocciolante che ci porta la tanto sospirata aragosta appena pescata. “Bene bene, sono contento”, e ci sediamo ad aspettare pazientemente che il Pécheur, trasformatosi in Chef, sottoponga al giudizio dei nostri palati quella prelibatezza. Quando appare lo accogliamo con un applauso fragoroso e mangiamo tutto senza fiatare, in uno strano religioso silenzio. A proposito, il cartone di carta igienica è servito: in mancanza di tovaglioli di carta usiamo la papier de toilette. Terminato il sontuoso pasto vado a salutare Elodie: è appena arrivata dal rilevamento giornaliero, è sudata, sporca, ferita, punzecchiata e fatiguée, non si regge in piedi e mi offre una banana. No, grazie, ne ho già volée due nel pomeriggio. Sorride, ci salutiamo e se domani vai al mare, per favore chiamami. Non ho voglia di tornare al farè, e quindi gironzolo ancora; mi imbatto in Jean-Baptiste che mi invita a giocare a bocce: perdo miseramente e gli devo cinque banane, merce preziosissima d’importazione (Isole Marchesi).

 

Dal ventidue al ventiquattro

Gli ultimi tre giorni

Venerdì si parte per Papeete e siamo tutti malinconici: Libero, io, Elodie che prenderà l’aereo insieme a noi; e sembra malinconico anche Ririfatù, che come tutte le albe se ne sta di vedetta in riva al mare a scrutare l’orizzonte con il binocolo: cerca gli uccelli nel mare aperto per capire dove si trova il pesce e, da come gli uccelli si tuffano, di che specie si tratti: in genere sono tonnetti. Ultima immersione nell’Oceano insieme a Ririfatù, Elodie e una decina di squali grigi; saranno pure pas dangereux, ma sono proprio vicini e il più corto supera i due metri. Tutti smettiamo di fare qualcosa: io di sollevare sassi alla ricerca di pupù, Elodie di scattare fotografie e Ririfatù di pescare. Solo loro non smettono di starci intorno, curiosi e spero solo curiosi. Comunque Ririfatù ricomincia a pescare: arpiona e getta la preda nella piroga. Io mi chiedo se non sia il caso ci salirci su questa benedetta piroga. Dopo qualche minuto gli squali scompaiono e noi riprendiamo le nostre attività, ma stavolta meno spensierati, guardandoci spesso (e inutilmente) dietro le spalle. La sera dopo cena guardo i ragazzi giocare a bocce, ma senza partecipare (ho terminato le banane) e vado a trovare Elodie che mi prepara un’orrida crema al cioccolato di cui va pazza; entriamo per non essere divorati dai nonò (abita un poco all’interno, mentre noi sul mare e al vento costante non abbiamo il piacere di essere visitati da questi insettucoli), poi mi liquida dicendo che è très fatiguée. Vado al porticciolo e mi sdraio per terra per vedere les etoiles. Rimango così, immobile almeno mezzora per vedere le stelle cadenti. Eccole: esprimo un desiderio.

Mercoledì ventitre settembre niente immersioni: troppo vento e pioggia. Giornata adatta per cercare molluschi terrestri. Mi faccio accompagnare con la voiture da Ririfatù a circa cinque chilometri di distanza, lo saluto e tornerò a piedi. Mi cospargo di anti zanzare e anti nonò, mi inoltro nella foresta e nel feò (non invidio Elodie che deve deambularci tutte le sere), piove, cerco, trovo, trascorrono due ore di pioggia intermittente, continuo a trovare, fotografo, mi buco le orecchie con le spine delle foglie del pandanus che un architetto ha progettato appositamente per farle pendere precisamente all’altezza della mia testa, smette di piovere, smetto di cercare, di trovare e di perforarmi i padiglioni auricolari, esco dalla foresta e decido di tornare seguendo il récif. Dopo la pioggia il vento aumenta e, per vedere qualcosa, devo continuamente pulire gli occhiali costantemente e completamente cosparsi di infinite ed infinitesime goccioline di salsedine. Il sole poi è diventato micidiale ma non me ne curo: sono coperto dalla testa ai piedi. Ricerco, ritrovo (questa volta conchiglie di mare), rifotografo, e dopo cinque ore appare la sagoma invitante e rassicurante del farè Réserve de Biosphère. È una casina appena costruita, sopraelevata nel caso di onde sovradimensionate, con una veranda accattivante, riposante, rivolta verso l’oceano e protetta da un palmier, un ingressino, tre stanze abbastanza spaziose e un bagno. Tutti i mobili li ha messi a disposizione Ririfatù: tavoli, tavolini e sedie, letti di legno (non c’è rete), due sottili “materassi”, due piatti, due tazze, posate e un forno a microonde. L’acqua è piovana: durante gli acquazzoni si incanala nelle grondaie e scorre, attraverso un filtro, in una grande cisterna di plastica; una pompa provvede a trasportarla nel bagno. Mi aspettavo decisamente di peggio; gli unici difetti sono la mancanza delle lampadine dell’ingresso e della veranda (e qui certo non si possono acquistare), di una piccola cucina, di un frigorifero e dell’acqua calda in bagno, dove mi reco per estrarre le spine di pandano dal mio orecchio. Ahi.

Il tempo vola e mi ritrovo alle nove di sera, a dodici ore di differenza con l’Italia, nella ormai familiare cabina del telefono che non tradisce; in un atollo sconosciuto, quasi abbandonato, dimenticato, nel cuore dell’Oceano, a circa seimila chilometri dalla terraferma più vicina, si digita il numerino magico della OPT card e, credito permettendo, si comunica col resto del pianeta, e  forse conoscendo i numeri giusti anche col resto dell’universo.

L’ultimo giorno a Niau trascorre veloce e anonimo: saluto Jean-Baptiste, Louis, il sindaco Tiaitau, la figlia di Ririfatù, e aiuto Libero a stendere la relazione finale per la Direction, tutta la giornata fra grafici, tabelle e traduzione in francese, io che il francese non lo conosco. Domani in aereo la farò leggere e correggere da Elodie, e a Papeete, prima di consegnarla, da Magali: tutte queste femmine dovranno pur servire a qualcosa. Ore diciassette, ultima passeggiata per Niau, strade vuote, sento una lontana risata da tacchino, poi bonjour, mi volto e saluto un bambino della scuola in bicicletta, vado al porticciolo capace di far attraccare un solo motoscafo alla volta, infine mi reco a salutare una signora sanito che infila collane di conchiglie. Chiacchiere dopocena prima con un Ririfatù raggiante, al quale ho regalato la mia torcia subacquea, poi con Elodie, meno raggiante e sempre più fatiguée e distrutta: l’ultima sera le ha riservato una brutta caduta nel feo e un ginocchio gonfio. Sono très fatigué pure io, non mi reggo in piedi. Scrivo queste dodici righe e mi si chiudono gli occhi. Alle ventuno e quarantatre.

 

Venerdì 25

Distacchi e incontri

All’aeroporto di Niau saluti emozionati, baci e strette di mano. “Allora mi vieni a trovare a Moorea?” “Che ne dici di dimanche?” “Perché no? Telefonami” Vedo Elodie allontanarsi zoppicando vistosamente e non le ho fatto correggere il mio francese. Siamo a Papeete. Il tempo di merda lasciato a Fakarava lo ritroviamo qui: pioggia inesauribile e vento di tempesta. Libero, sempre così preciso, stavolta ha dimenticato di prenotare una stanza per me e di confermare la sua prenotazione alla pension; troviamo una sistemazione lontano dal centro e dal bureau della Direction de l’Environnement. Lì mi presenta Mirì, una bellissima donna tahitiana che è il capo dei capi della Direction; risponde del suo operato solamente al Ministro, ed è lei che decide quanto e a chi assegnare i contributi per le ricerche. Quindi Claude, un corso alto, brizzolato, fascinoso, chiacchierone e simpaticissimo, convinto di essere irresistibile (vero, ma meglio non averlo come nemico) e di parlare perfettamente l’italiano (falso); Libero è preoccupato per il rinnovo della convenzione, e Claude, per tranquillizzarlo e per dire che filerà tutto liscio come l’olio utilizza una delle sue preferite frasi idiomatiche francesi: “anderà tutta comm un scorreggia sulla tela cerata” (letterale). E poi, inaspettata, ecco che appare con il suo sorriso una travolgente Magali, che ci saluta in modo a dir poco caloroso. Infine Claude si offre di correggere la traduzione e ci accompagna in voiture alla pension dove rimaniamo fino a sera a perfezionare la relazione.

È  notte e non ho la forza per andare ad una cabina telefonica (che devo cercare). Col buio e la pioggia veramente non so dove trovare un telefono. Qui a Papeete sembra tutto più difficile, anche riposare: al suono del vento e dell’oceano contro il récif si è sostituito l’inutile e roboante rumore del traffico. Niau è lontana, in un altro mondo.

 

Sabato e domenica

Papeete

In realtà la cabina del telefono è proprio di fronte, mi dispiace di non averla vista ieri sera. Prepariamo la relazione in francese da sottoporre all’esame di Claude, e passa tutta la mattinata. Con Libero mi faccio accompagnare nel centro di Papeete dove lui tenta inutilmente un collegamento con la posta elettronica;  torna incazzato alla pension mentre io gironzolo ancora un poco e scelgo dei regalini al Salon du Tourisme. A Niau, come in tutti i piccoli centri, ci si incontra, ci si osserva, ci si confronta e ci si saluta.  A Papeete (brocca d’acqua  – pape ‘ete), come in tutte le grandi città, semplicemente ci si ignora: perché salutare qualcuno che probabilmente non si incontrerà mai più? Ma la differenza con le grandi città è che Papeete non è una grande città: il porto-lungomare (tre o quattro chilometri di lunghezza), tre o quattro strade parallele e quelle che le intersecano, un poco di periferia sgangherata, et c’est tout. Torno anch’io, e Libero ha voglia di ristorante e vino. Troviamo un posticino che si rivela più che passabile e trascorriamo una serata piacevole con Martini, pesce, chardonnai, e tante chiacchiere sul suo albero genealogico, i paesi arabi e le femmine. Infine lui a dormire ed io a scarpinare per raggiungere il centro: non voglio proprio perdermi il sabato sera di Papeete. Mi sembra una città molto “fisica”; donne e uomini, belli, brutti, grassi, magri, giovani, vecchi, sprizzano sesso da tutti i movimenti, sguardi, voci, odori e tatuaggi. È anche traboccante di gay, trans e travestiti alquanto disinvolti. Ascolto musica jazz con pianoforte e sax soprano in un bistrot del porto, dove un cameriere pure lui gay mi porta la birra locale Hinanò. Quando esco mi immergo in uno stuolo di cinesi. Papeete e tutta la Polinesia francese sono in mano a poche famiglie cinesi: possiedono la maggioranza delle azioni delle banche, delle assicurazioni, delle compagnie aeree, tutte le navi da carico (compresa la Mareva Nui), l’azienda turistica e il governo, e qui a Papeete la cosa è molto più tangibile che altrove in Polinesia: cinesi dovunque e alcuni quartieri dell’interno non devono essere molto dissimili da Shanghai o Hong Kong. Torno a piedi: è anche una città cara e voglio risparmiare i soldi del taxi. Scopro così il quartiere delle mignotte. Due o tre ad ogni angolo, discrete e non invadenti, parlottano, ti guardano, ti sorridono anche se sei in coppia, ma non osano oltre, night club colmi di portuali e marinai tatuati anche sotto le palpebre, e turisti ubriachi che stonano al karaoke; vengo interpellato da una splendida signorina, alta, magra, due gambe da capogiro e un viso d’angelo. Mi accorgo che è un travestito (sono più intraprendenti): grazie tesoro, forse in un’altra vita. Ritrovo la strada della pension, un chilometro circa e sono a letto.

Domenica dopo colazione ci trasferiamo in un’altra pension, meno rumorosa e più vicina al centro, con un giardinetto e lontana dal traffico. Disgustoso pranzo rimediato in un magazin cinese, l’unico aperto di domenica, e poi lavoro con il portatile nel dehors. Libero dorme a lungo, non è nei suoi momenti migliori, e scende alle sei del pomeriggio, poi andiamo a cena sul porto dove ieri sera avevo scovato una rotonda con almeno trenta furgoni-ristorante che chiamano roulottes, anche questi tutti cinesi, che servono dal pesce crudo al maiale arrostito sul posto. La cena ripaga il pranzo: il pesce crudo alla tahitiana e il chao men (spaghetti di riso con gamberi e verdure) sono molto buoni; niente a che vedere con le delizie di Ririfatù, ma siamo soddisfatti: tanta gente che mangia, ride, e sente la musica di un’orchestrina. Nel tornare Libero mi spiega il perché di tanti gay o presunti tali. Nella Polinesia antica c’era una tradizione che, nonostante i cambiamenti, si mantiene ancora oggi: quella dei mahù. Sono bambini, e poi ragazzi e poi adulti che si sentono donne e da donne si comportano; non sono necessariamente gay, almeno non sotto il profilo strettamente sessuale; molti mahù, infatti, si sposano e hanno figli, ma si vestono, si truccano, parlano, vivono come fossero donne a tutti gli effetti, e soprattutto senza nascondersi. Dopo aver accompagnato Libero mi rifaccio il chilometro indietro per tornare al porto. Papeete mi sembra migliore, forse perché ha smesso di piovere. È comunque una città sporca, maleodorante, fatiscente, inquinata, con molti mendicanti di giorno che vengono sostituiti da altrettante puttane di notte. Ed è una città dove mi sento solo: con tanta fisicità, sensualità e sessualità ostentata mi sento a disagio senza una compagna. Guardo i velieri ancorati e parlotto con due marinai colombiani: sono due ragazzini, ma piccoli, arruolati nella marina militare, al loro primo viaggio importante, estasiati dal fatto di aver ormeggiato nel porto di Papeete, Polinesia francese, e molto orgogliosi del loro tre alberi. Sto per chiedere che ci fa un tre alberi militare colombiano ormeggiato nel porto di Papeete, Polinesia francese, quando d’improvviso vengono chiamati da un gruppo di commilitoni e mi salutano. Sulla strada del ritorno un ragazzo strafatto mi segue e mi chiama “Eh! Blanc! Blanc!” (indosso maglietta e pantaloni bianchi); lo ignoro e vado avanti. Mi tira una mela mangiucchiata, per fortuna mi manca, e la vedo rotolare davanti ai miei piedi. “Blanc!”, allunga il passo, lo sento avvicinarsi alle mie spalle, non mi volto ma sono pronto a reagire, è molto vicino, quasi ci tocchiamo, continuo con la stessa andatura. Poi si ferma, lo sento gridare presumibilmente graziosi complimenti all’indirizzo mio e di mia madre, e se ne va. Mi rilasso, è andata bene.  Ora sono a letto e scrivo. Ha ricominciato a piovere forte.

 

Lunedì ventotto settembre

Nuovi incontri

Molti incontri interessanti, una giornata piacevole. Andiamo al mattino in centro ed incontriamo Vincent, un amico di Libero. È un esperto di conchiglie della Polinesia e Libero vorrebbe sottoporgli alcuni dubbi di classificazione. “Pourquois non venite a mangiare chez moi ce soir?” Per noi non ci sono problemi; ci salutiamo e raggiungiamo uno degli uffici della Direction de l’Environnement. Ci riceve la responsabile Tatarata Mirì che ci sottopone ad un esame che, per insistenza e spudoratezza, è molto simile al terzo grado della vegliarda Sanito a Niau: parliamo di ecologia del pupuniau, del martin cacciatore, delle liste CITES, della Convenzione di Ramsar e dei piatti tipici di Niau (di cui ormai siamo gli europei più esperti al mondo. Non mi ero sbagliato: Mirì è una donna bellissima, tra i quaranta e i cinquanta, magra, carnagione scura, occhi grandi ed espressivi, vestita di un abito attillato, semplice, verdino, che le sta molto bene, scarpe basse, abituata a comandare ed a ottenere ciò che vuole. Finalmente viene il mio momento: “è possibile vedere qualche foto e la presentazione de l’école?” Non rispondo, estraggo dal cappello a cilindro la chiavetta magica del portatile, mi avvicino, la inserisco nel suo PC, qualche scongiuro (con Bill Gates qualcosa può sempre andare storto), et voila: sorrisi, commenti lusinghieri e due errori di ortografia che mi fa notare con discrezione, cercando di non offendermi. Poi senza preamboli chiede quando siamo disponibili a tornare. Domanda retorica, sa benissimo che dipende da lei e dall’erogazione della nuova convenzione. Mirì propone febbraio-marzo e Libero accetta. Poi propone un pranzo per l’indomani con l’onnipotente sindaco di Fakarava, da cui dipendono tutti i comuni della Riserva; ci chiede se siamo disponibili e a che ora: mezzogiorno? Oui. Telefona e comunica l’orario dell’appuntamento suppongo alla segretaria del sindaco. Chiediamo l’autorizzazione per pubblicare i risultati della missione: oui; chiediamo l’autorizzazione per trattenere un esemplare di ciascuna specie raccolta per il museo di Libero: oui.

È arrivata l’ora di pranzo e con Libero ci rechiamo al mercato. Io osservo le persone intorno a noi; le parti più belle dei polinesiani sono senza dubbio gli occhi e il sorriso, di donne e uomini indistintamente: occhi in genere scurissimi, grandi ma un poco allungati, espressivi; e il sorriso è sempre travolgente e contagioso. La parte più brutta sono senza dubbio i piedi: non usano scarpe, solo ciabattine, ma spesso sono scalzi, piedi di ottant’anni su bambine di quindici, rugosi, rovinati dall’acqua di mare, feriti e piagati dal lavoro nei palmeti, inspessiti dal poco uso dei sandali, gonfi per la filariosi, unghie indurite e con micosi. Verso sera ci viene a prendere Vincent. La sua abitazione si trova in collina, in un ricco quartiere residenziale, ed ha una vista superba sulla montagna e sulla baia dove per primo è attraccato Cook, poi tutti gli altri. Vincent non fa altro che parlare, di tutto. Impariamo che la Francia distribuisce miliardi di euro in Polinesia; gli stipendi della Pubblica Amministrazione (ministeri, Istruzione, Forze Armate, Polizia, parte della Sanità) sono pagati dal governo francese; così come le infrastrutture ed alcune imprese: un fiume di denaro che consente ad un paese senza risorse e con poco turismo di sopravvivere. È davvero preparato sulla malacologia polinesiana, e ci spiega molte cose. Si fa tardi. Torniamo in pension.

 

Il ventinove di settembre

Precedenze

Alle nove e trentacinque, mentre ci rechiamo al porto, una sirena non smette di sirenare. Due netturbini cinesi ci vengono incontro e ci avvertono che è l’allarme tsunami. Ci prendono per il culo, intorno a noi non succede niente, tutti al loro posto e tranquilli. Ma la sirena sta ancora sirenando. Comincia a diluviare e troviamo riparo sotto la tettoia dell’ufficio del Turismo; che strano, è chiuso. Una ragazza mi viene incontro: “le bureau c’est fermé, c’è lo stato di allerta tsunami e bisogna allontanarsi dalla costa”. I netturbini erano solo gentili, bisognava fidarsi. Mi guardo intorno e noto una frenesia ordinata: in realtà tutti si allontanano, chi a piedi, chi in voiture, i negozi sono chiusi o in procinto di abbassare le serrande, anche l’ufficio della Direction è fermé: torniamo alla pension. Se in Papeete si può essere sicuri di una cosa, ebbene si tratta della precedenza: i pedoni sugli attraversamenti pedonali hanno sempre e di fatto la precedenza; si potrebbe attraversare ad occhi chiusi, tutte le voitures si arrestano e fanno cenno di passare. Invariabilmente, anche in questa situazione di emergenza. Emergenza che a Tahiti si rivela infondata: onda prevista alle dieci e trenta di ottanta-novanta centimetri, ma che infine non arriva; anche alle Marchesi pochi danni; solo Samoa, da cui tutto ha avuto origine, conterà alcune vittime ed un villaggio distrutto. Riusciamo a malapena a telefonare a Claude che ci informa che, com’era prevedibile, il sindaco di Fakarava ha dato la precedenza all’onda per cui l’appuntamento è rinviato a domani. Pomeriggio a zonzo: tutta la Papeete gironzolabile si riduce al porto-lungomare e ad una decina di strade. Penso di aver capito che quelli che ritenevo mendicanti, sono solo persone che siedono o dormono per terra: i polinesiani sono alquanto disinvolti, e se hanno voglia di fare qualcosa, allora la fanno; se sono stanchi possono benissimo sdraiarsi per terra o su uno scalino. Trovo un internet-point, ma sta chiudendo; appena il tempo di leggere la posta e di mandare pochi messaggi. Poi Cena alle roulottes con Libero.

 

Mercoledì

Riunione

Certo la pension dove abitiamo non è sita in un quartiere residenziale: le strade intorno olezzano non poco, e di notte pullulano di ragazzi ubriachi e drogati. E come il resto di tahiti è rumorosa: riepilogando, a Fakarava pochi galli e molti ubriachi, a Niau qualche gallo, le risate da tacchino e il suono del vento e dell’oceano contro la barriera, nella prima pension il rumore assordante di un traffico disordinato, qui molti galli che manifestano la propria presenza a qualsiasi orario, e lo schiocco sonoro ed improvviso, nel cuore della notte, dei gechi. La mattina a colazione ci viene incontro la padrona della pension, con La Depeche di domenica: inaspettatamente c’è un articolo che parla dei due malacologues italiens a Niau, con tanto di fotografie della proiezione nella scuola. Cerchiamo la firma, non ne sapevamo niente: Lise, la parigina col pupo al seguito, è una corrispondente del più diffuso quotidiano di Tahiti, ed ha scritto un lungo e bell’articolo sulla nostra attività nell’atollo. Siamo a fare compere fino all’una, per l’appuntamento col gotha della Résèrve de Biosphère: Mirì, che risponde solo al Ministro dell’Ambiente e il sindaco di Fakarava Vairaaroa Howard, detto Tutù. Riunione di tre ore e mezza per decidere in linea di massima il calendario delle ricerche per il prossimo anno, e la logistica, dai trasporti (aerei, navi, motoscafi, pescherecci per la pesca dei tonni, zattere, “dirigibili e mongolfiere”) al materiale necessario (attrezzatura completa per le immersioni, tende da campeggio, carburante, gruppo elettrogeno); partecipa anche Claude e si stabilisce che Mirì proporrà al Ministro uno stanziamento di cinque milioni di Franchi Pacifici (circa quarantaduemila euro) per finanziare la prossima missione di Libero, che dovrebbe durare almeno tre mesi e riguardare tutti gli atolli della riserva ancora non studiati. Poi ci rivolge un complimento inaspettato: d’ora in poi terrà come modello di riferimento la nostra relazione finale per accettare o meno quelle degli altri ricercatori che lavoreranno sulla riserva. Ultima cena con Libero alle roulottes, con un’aria fresca e finalmente respirabile: vento e pioggia hanno eliminato i fumi delle voitures. Libero è felice, avrà pronunciato almeno un centinaio di volte “bene bene, sono contento”. È di nuovo il momento dei baci e degli abbracci: la mia ultima soirée a Papeete. Dopo aver accompagnato Libero alla pension, io torno da solo al bistrot del cameriere mahù. Mi riconosce e mi rivolge grandi sorrisi: è simpatico. Passo un’ora tra chiacchiere con lui, la padrona e le altre cameriere, musica jazz piacevole ed accurato costumer-watching: scommetto con me stesso su chi partirà presto e chi rimarrà più a lungo o per sempre. Indovino una coppia partente: calorosi saluti, strette di mano e lunghi discorsi di commiato, mentre le cameriere, che devono servire ai tavoli, sopportano spazientite e scalpitanti. Attendo che tutti siano abbastanza impegnati per pagare e dileguarmi in modo anonimo: basta addii strazianti. Torno a piedi; aux revoir Papeete.

 

Giovedì primo ottobre

Fine

Alle otto da Claude e Mirì per la consegna ufficiale di tutto il materiale, e Claude mi riempie di chili di carta tra libri, pubblicazioni e poster, tanto che devo spendere gli ultimi Pacifici rimasti per acquistare un’altra borsa. Ma nel frattempo una visita inattesa. “Bonjour, les italiens!”: è una zoppicante Elodie con il ginocchio ancora infortunato. Non vorrei essere nei suoi panni: Mirì è incazzata nera per l’articolo di Lise, l’amica di Elodie. Tutto deve passare attraverso di lei, la Résponsable de la Réserve de Biosphère, e odia i giornalisti perché scrivono senza essere a conoscenza dei dettagli; sostiene che questo articolo potrebbe rivelarsi insidioso per la Riserva: racconta in termini entusiastici delle ricerche sulle conchiglie, ma non tiene conto dei problemi che la popolazione potrebbe avere nel caso di una protezione totale e di un divieto assoluto di raccolta. Nei piani della Direzione dell’Ambiente c’è piuttosto l’intenzione di costituire una riserva integrata che consenta alle popolazioni, in modo controllato, di continuare nelle loro attività di pesca e raccolta, ma di tutto ciò non c’è traccia nell’articolo; si parla di Riserva in senso generale, protezione, specie a rischio, raccolta eccessiva, e tutto ciò, se non supportato da una chiara e dettagliata spiegazione di come, quando e in che quantità la protezione debba avvenire, rischia di trascinare nel panico la popolazione che vede minacciati i propri mezzi di sostentamento, con relativa sollevazione contro la Réserve, Mirì, e Tutù. Comunque Elodie ci saluta e si getta nella tana del leone. Bonne chance! Il resto della giornata trascorre veloce: passeggiate, ultimi pochi acquisti, chiacchiere con Libero, pranzo al mercato (come farò senza il pesce crudo alla tahitiana?); come spesso è successo in questa settimana, Libero torna in taxi ed io continuo a gironzolare per Papeete che non mi sembra più tanto brutta. Con Libero (lui rimarrà almeno un’altra settimana) ci salutiamo la sera e ci diamo appuntamento a Copanello; in questo mese di convivenza stretta, quasi ventiquattrore su ventiquattro, non abbiamo mai discusso né tantomeno litigato: direi che siamo diventati amici. Questa volta mi gratifica con un “bene bene, sono molto contento”, ma si vede che lo è molto di più. Senza di me se la caverà benissimo, anche col francese che pronuncia in modo molto approssimativo; ma io me la caverò senza di lui e le sue storie?

Sono all’aeroporto ed ascolto con invidia i musicisti che accolgono all’arrivo i nuovi giunti. È piacevolmente malinconico ripensare al mio arrivo e a tutto quello che è successo. Sono cambiato? forse. O forse ho solo imparato e capito alcune cose. A Fakarava ho imparato ad immergermi col mare mosso; con Ririfatù ho imparato a fidarmi di più di chi non conosco; con Mirì ho capito che a uno sguardo di sfida si risponde con uno sguardo altrettanto sfrontato, e che un’occhiata può essere più importante di mille parole; con Mirì e Claude ho capito di avere abbastanza faccia tosta da millantare una buona conoscenza del francese, e abbastanza disinvoltura per farlo credere; con Claude ho imparato meglio il francese; con la balena ho capito di poter gestire le emozioni forti e improvvise; con gli squali grigi ho capito di poter gestire a stento le emozioni forti e improvvise, e Ririfatù ha cercato, con non molto successo, di insegnarmi ad affrontarli; ho capito di aver paura di ciò che non conosco, ma questo mi spinge a conoscere di più e meglio; con Libero spero di aver imparato a non nascondere difetti e problemi; con Libero ho imparato che ci si può convincere che l’età sia solo una questione anagrafica, al punto tale di convincere anche il proprio corpo – o quasi; con Libero ho imparato a ridere delle malattie gravi; con Libero ho imparato che una vita di tragedia può essere affrontata e superata con un istante di felicità e con una manciata di leggerezza.

Dopo tutto penso di essere un poco cambiato: penso di sapere meglio cosa voglio e spero di trovare il coraggio necessario per ottenerlo, o almeno per provare ad ottenerlo. Una cosa ancora non so: riuscirò a fare a meno del pesce crudo col latte di cocco?